Parkour e società
“Many of our problems come from having too much: rapid technological discruption, junk food, traditions that tell us the way we’re supposed to live our lives […] Great times are great softeners. Abundance can be its own obstacle, as many people can attest. Our generation need an approach for overcoming obstacles and thriving amid chaos more than ever.”
Ryan Holiday, The obstacle is the way
Il messaggio dell’autore è chiaro: oggi più che mai c’è la necessità di crescere ragazzi in grado di superare l’ostacolo. Viviamo in un periodo storico di grandi opportunità se si considerano l’aspettativa di vita alla nascita, lo sviluppo economico-sociale e l’avanzamento della tecnologia.
E quindi?
“Great times are great softeners”
Tutto questo benessere può paradossalmente avere un effetto negativo sulle persone. In altre parole rischiamo di crescere generazioni nell’agio e nell’ozio , generazioni che di fronte ad un’avversità si bloccano, non riuscendo a superarla. Se hai la “sfortuna” di nascere in un ambiente agiato e allo stesso tempo non hai qualche grande talento, cosa può spingerti a diventare protagonista della tua vita? Cosa può spingerti a sfidare la comfort zone?
E il parkour cosa c’entra?
Il parkour è un’ ottima attività per crescere un bambino da un punto di vista motorio. Ho conosciuto bambini che a 12 anni avevano grandi difficoltà con gli schemi motori di base: camminare, correre, saltare, lanciare ed afferrare e questo probabilmente a causa di uno stile di vita eccessivamente sedentario. E’ ottimo anche da un punto di vista pedagogico: i bambini devono muoversi liberamente e ciò implica anche la possibilità che ogni tanto si cada e ci si sbucci un ginocchio. Se non li si abitua a cadere per poi rialzarsi allora non capiranno mai cosa significhi imparare dai propri errori.
E cos’è che lo rende diverso dagli altri sport?
Quello che è difficilmente riscontrabile in altri sport è la frequenza con la quale ci si trova a dover gestire la paura. Nel parkour ci si imbatte spesso nel breaking jump, ovvero un movimento qualsiasi che suscita molto spavento all’atleta, ma che lui decide di effettuare nonostante la paura. Nei primi anni di pratica l’istruttore deve intervenire prima del breaking jump sollecitando il ragazzo ad eseguire il movimento in sicurezza e con convinzione. Si tratta di un’esperienza che mi piace paragonare ad una sliding door (dal film di Peter Howitt), nel senso che cambia molto la persona che la compie, specialmente da un punto di vista psicologico.
Incontriamo breaking jumps nel corso di tutta la vita: parlare con il ragazzo nuovo in classe che non conosce nessuno, ammettere le proprie colpe dopo un litigio, parlare davanti ad un pubblico numeroso, presentarsi all’interrogazione di latino senza fingere una febbre improvvisa.
Ma non è uno sport individuale?
Partendo dal presupposto che non sono d’accordo con chi demonizza gli sport individuali e loda incondizionatamente quelli di squadra, il parkour è uno sport di individui non individuale. Nonostante l’oggetto dell’allenamento sia prevalentemente il proprio corpo, ci si trova comunque in contatto con altre persone. Questo contatto ha delle peculiarità. Mi spiego meglio facendo un paragone con l’atletica dove la vastità della disciplina rende difficile stabilire chi sia l’atleta migliore in assoluto, se non nelle specifiche categorie. Ogni ragazzo sa che, sebbene sia abile in una specialità, ci potrà sempre essere qualcuno che è migliore di lui in un’altra. Se nell’atletica tutto è codificato e calcolato, questo nel parkour non avviene, rendendo perciò molto difficile stabilire chi sia il più abile in assoluto del gruppo.
Ciò comporta, a mio avviso, lo sviluppo di una qualità che mai chi lavora con i giovani dovrebbe dimenticarsi di insegnare: l’umiltà. Sono convinto che se si riesce a far crescere persone umili e al tempo stesso coraggiose, si sarà dato un contributo positivo alla società.
Respect, force, courage…